DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO: CONSIDERAZIONI FENOMENOLOGICHE
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo figurava, nella terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III), nella categoria dei Disturbi d’Ansia. Nonostante l’evidenza di una sintomatologia ansiosa nei quadri ossessivi, le differenze biologiche e cliniche evidenziate negli ultimi anni hanno reso opportuno distinguere i due fenomeni, tanto che nel DSM 5 il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è posizionato in una categoria propria: “Disturbo Ossessivo-Compulsivo e disturbi correlati” (American Psychiatric Association, 2013).

I principali criteri diagnostici secondo il DSM-5 postulano la presenza di ossessioni (“Pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi e indesiderati e che nella maggior parte degli individui causano ansia o disagio marcati”), compulsioni (“Comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il soggetto si sente obbligato a mettere in atto in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente (…) volti a prevenire o ridurre l’ansia o il disagio o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; tuttavia, questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi”) o entrambe (American Psychiatric Association, 2013).
Un Chi così descritto diventa, tuttavia, un Cosa: limitare il tentativo di comprensione di un fenomeno ai suoi correlati nosografico-descrittivi (pur assolutamente fondamentali per la pratica clinica, poiché consentono di muoversi su un territorio comune parlando uno stesso linguaggio) significa ridurre un soggetto a una categoria, astraendone le caratteristiche che lo rendono uguale ad ogni altro e perdendo completamente ciò che lo rende unico: proprio quelsoggetto, in quel mondo, con quel modo di fare esperienza entro il quale è possibile comprende i motivi del soffrire. Una descrizione come quella del DSM 5 è valida cioè per ogni nostro paziente, indipendentemente dal suo nome, dal suo luogo di residenza, dal lavoro che ha scelto, dalla storia di vita che ha portato a tali scelte e dalla traiettoria di vita futura (progetto) sulla quale si mantiene e per la quale vive. Tuttavia, è solo declinando la sintomatologia nello specifico spazio creato dall’intreccio unico tra storia di vita e orizzonte d’attesa, all’interno del contesto di esperienza, che è possibile dare un senso a quanto avviene. E’ possibile, cioè, ritrovare i motivi del soffrire, comprendere perché il nostro paziente fa esperienza di un mondo privo di coordinate, che ha perso il suo ordine e non fornisce indicazioni chiare e univoche sulla direzione da prendere. Solo all’interno di questa esperienza ritroviamo il senso della storia, che permette di risolvere le fratture identitarie e ridare continuità al personaggio e alla sua vita! Aprire un libro e leggerne due pagine centrali permette di fissarne i contenuti, ma non di comprendere come quel personaggio è arrivato in quella situazione, perché mette in atto determinati comportamenti, e quale scopo si prefigge (ovvero, a quale futuro tende). Senza queste coordinate, comprendiamo ciò che accade, ma non il senso della storia! Ogni storia clinica va allora vista come un testo da leggere e ascoltare, con l’attenzione protesa a cogliere tutto ciò che imprime un certo inconfondibile stile a un’esistenza (Muscatello & Scudellari, 2010).
Come dare, allora, un senso alla patologia ossessivo-compulsiva, declinandola secondo esperienza? Secondo una prospettiva ermeneutico-fenomenologica, coloro che la sviluppano tendono perlopiù a mantenere una stabilità personale utilizzando un sistema di riferimento esterno, emozionandosi e co-percependosi a partire dall’Alterità (outwardness). Il senso di sé consegue quindi sempre anche alla definizione dell’Altro, che in queste persone è Altro impersonale: ad es, norme, valori, immagine di sé, o ruolo. Le altre persone e i contesti vengono quindi incontrati tramite la mediazione da parte del sistema di riferimento (Liccione, 2011) che è personale e peculiare per ogni soggetto. Alcuni tratti tipici come l’indecisione, la scrupolosità o l’insicurezza, rappresentano modi di essere-nel-mondo che favoriscono la configurazione esperienziale attraverso la mediazione di un sistema formale di significati: l’ipseità è costantemente significata secondo riferimenti astratti e impersonali che sono propri del sistema personale di coordinate, e al suo accadere, si appalesa un mondo conforme ad essi. In altri termini, l’accesso alla rete coerente di rimandi e ai significati è ogni volta mediato dai riferimenti attraverso i quali il soggetto si co-percepisce, e questo si evidenzia nell’appropriatezza o inappropriatezza di uno stato emotivo, determinata dal sistema di senso utilizzato. Se una condizione emotiva non corrisponde al sistema di senso della persona, essa è vissuta come estranea a sé, o una minaccia alla propria integrità e stabilità (Arciero & Bondolfi, 2012). E’ bene tuttavia sottolineare che fino a quando questi tratti riescono a garantire il mantenimento di un adeguato livello di stabilità personale, essi non sono da considerarsi sintomatici di una psicopatologia, ma semplici caratteristiche di un modo di essere-nel-mondo che come tale è presente in moltissime persone.
Quando avviene allora la psicopatologia? La frattura identitaria alla base del disturbo sarà da ricercare nella mancata corrispondenza tra l’esperienza e lo specifico set di riferimento (Liccione, 2011). Ovvero, se l’ipseità acquista ogni volta significato a partire dalla corrispondenza a un complesso impersonale di referenze attraverso cui contemporaneamente s’incontra il mondo, una ridotta coincidenza (causata da un evento di vita, ad esempio, o da una serie di piccole fratture) provoca uno scarto tra l’esperienza e il senso di essa, così che quel set di regole astratte e impersonali non garantisce più un’adeguata co-determinazione di sé. Il senso di imperfezione, incompletezza, insufficienza, impossibilità di muoversi secondo coordinate definite del mondo è la logica conseguenza di questa mancata comprensione. Avviene una fondamentale alterazione del rapporto con la realtà che provoca quell’insicurezza ontologica che pervade l’atmosfera in cui si muove la persona: viene meno quel sentimento di fiducia, di “rightness”, di relazione simpatetica con il mondo. Il clima emotivo che emerge è quello del dubbio pervasivo di ogni aspetto della realtà. Blankenburg parla di “perdita dell’evidenza naturale” per descrivere il mondo sempre più svuotato di significati che è proprio dell’ossessivo (Blankenburg, 1967).
La sintomatologia risulta allora dal divario creatosi tra l’esperienza e il sistema di riferimento – non a caso, spesso i temi delle ossessioni possono essere ricongiunti ad esso! Le compulsioni sono il tentativo di riconnettere l’esperienza e il sistema di significati “attraverso un riposizionamento situazionale immediato” (Liccione, 2011). In questa lettura, la ricerca della perfezione diviene allora il tentativo di garantire o ricomporre le certezza del senso della propria esperienza, che sfocia in attività ripetitive, scrupolose e accurate benché spesso prive di ogni rilevanza: il rituale come atto che corrisponde a una sequenza, che rispetta una regola (Arciero & Bondolfi, 2012). Allo stesso modo, indecisione e dubbio sono figli dell’imprevedibilità delle conseguenze di un’azione alla luce dell’incertezza e della perdita di coordinate; meticolosità e lentezza decisionale sono tentativi di ridurre l’imprevedibilità del futuro, e sfociano nell’effetto paradossale del dubbio eterno, infinito, che cristallizza il tempo dell’ossessivo nel presente. Il soggetto perde la propria temporalità, quindi la propria storia: è imprigionato in un “qui ed ora” ripetitivo, protocollato, che annulla le distanze e fa della prossimità la relazione spaziale per eccellenza, contribuendo alla minuziosità e alla frammentarietà tipiche del fare esperienza di coloro che soffrono di questo disturbo.
Cosa fare dunque? La psicoterapia con il paziente ossessivo è un lavoro lungo e complesso, volto a ricercare ogni volta l’accadere della frattura identitaria che ha reso impossibile il riferimento al sistema di coordinate esterno di co-determinazione, unico per ogni persona, nel tentativo di ricreare un sentimento di fiducia nel mondo e di “orientamento” che consente di muovere un passo verso una rinnovata progettualità, spesso cristallizzata nel ripetersi dell’oggi, dell’ora, in un infinito tempo senza tempo.
- American Psychiatric Association (APA) (2013), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014
- Arciero G. & Bondolfi G. (2012) Sé, identità e stili di personalità. Bollati Boringhieri, Torino
- Blankenburg, W. (1967) La perdita dell’evidenza naturale: un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Raffaello Cortina Editore, Milano
- Liccione, D. (2011) Psicoterapia cognitiva neuropsicologica. Bollati Boringhieri, Torino
- Muscatello, C.F. & Scudellari, P. (2010) Ossessione e delirio. Due momenti di una stessa crisi dell’identità dell’io. Comprendre, 21, 232-239